Un tesoro templare a Montalbano?

2018-03-12T08:25:40+00:00 07/04/2014|Uncategorized|0 Comments

(Paul Devins e Alessandro Musco – Tratto da Argimusco Decoded – 3 edizione 2014)

Come avranno notato i nostri (annoiati) lettori, l’approccio storiografico da noi tenuto è stato costantemente incardinato su un rigido ossequio a principi di coerenza documentale e scientifica di ogni affermazione o ipotesi qui formulata.

Pochi giorni fa ci ha lasciato il nostro compagno di viaggio, Alessandro Musco. 

A fine 2011 questi aveva rilasciato alcune dichiarazioni al nostro comune amico Enzo Basso. In esse Musco menzionava, a sorpresa, un possibile tesoro templare nascosto a Montalbano. Le dichiarazioni vennero poi pubblicate nel marzo 2012 sul settimanale Centonove in un box sottostante un dossier relativo ad alcuni scomposti attacchi fatti da uno studioso locale verso le nostre tesi.

Il tema del tesoro templare fu allora oggetto di numerose conversazioni tra Musco e il sottoscritto. Alla fine convenimmo sul fatto che certe notizie avrebbero potuto sottrarre attendibilità al nostro lavoro per farlo sconfinare nel leggendario o esoterico (terreno che lasciammo e lasciamo volentieri alle cure degli assertori dei ciclopi preistorici artefici del complesso di Argimusco).

 

Da allora trascorsero due anni di intensissime ricerche e studi. Le ultime acquisizioni documentali e storiografiche, nel frattempo, avevano corroborato e rafforzato le prime conclusioni, già anticipate nel novembre 2011, circa la koinè culturale medico-alchemica e astrologica di impronta medievale islamico-iberica e circa la committenza da parte della Corona Aragonese dell’opera megalitica. Non vi erano più dubbi di sorta. Tutto l’insieme era di origine medievale ed eravamo anche riusciti a tracciare le risorse finanziarie utilizzate per la realizzazione.
Verso gennaio 2014 ci inviammo dei messaggi in cui ci promettevamo a vicenda di effettuare alcune ricerche sul campo, sulla scorta di qualche rilevazione già compiuta dall’Università di Napoli, “quando il tempo si sarebbe volto al bello” per dare “fuoco alle polveri”…
L’improvvisa scomparsa del nostro amico ha reso tale impegno, purtroppo, irrealizzabile, ma non ci impedisce di realizzare alcuni dei suoi desideri culturali di una vita: il primo, rendere giustizia al grandissimo personaggio storico che fu Federico III di Sicilia, e, il secondo, studiare l’ipotesi di una possibile presenza di un tesoro templare a Montalbano. 
Con questo scritto, vogliamo rendere omaggio alla passione e all’impegno profusi da Alessandro Musco per la riscoperta della storia della terra di Sicilia. A motivo della densità di idee, argomenti e riflessioni direttamente riconducibili al Suo insegnamento, il presente studio, pur indegnamente, può, pertanto, essere considerato quale scritto postumo del compianto grande studioso.   
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Secondo la tradizione il Graal è la coppa in cui venne raccolto il sangue versato da Cristo sulla croce. La leggenda fu celebrata dai poemi del Graal composti nel XII secolo da Chretien de Troyes1alla corte di Champagne, la stessa corte in cui in quell’epoca si creò il primo nucleo dei futuri Cavalieri del Tempio (Templari). Chretien de Troyes, introdusse nella già vasta letteratura riguardante le gesta di Re Artù, il mito del Vaso Sacro, il Santo Graal. In una versione successiva del mito, il Parzival di Wolfram von Eschembach2, il Graal è, invece, una pietra magica vegliata dai Cavalieri Templari3 . 
La storia della pietra magica narra di come Lucifero (nonostante il suo nome sia utilizzato per rappresentare il Diavolo, un tempo non aveva alcuna associazione con il demonio, ma significava soltanto “portatore di luce”) condusse un terzo degli angeli in una rivolta contro Dio. Fu sconfitto e scagliato giù dal Paradiso. Dalla sua fronte si staccò un grande smeraldo4. Dallo smeraldo precipitato al momento della sua caduta sarebbe stata intagliata dagli Angeli la mitica coppa.

E’ interessante notare come, anche nelle prime leggende arturiane, il Graal  sia descritto proprio come una “pietra caduta dal cielo” (lapis exillis da lapis lapsus ex caelus, pietra caduta dal cielo o lapis elixir, elixir di lunga vita estratto dalla pietra)5. Da questa storia riviene la valenza alchemica della simbologia del Graal. Tra tutte le varie interpretazioni, alcune strampalate altre inverosimili, dedichiamo la nostra attenzione ora a quella alchemica.  Il fine dell’alchimia, lo abbiamo detto, era quello di creare una pietra in grado di tramutare tutti i vili metalli in oro. Grazie all’insegnamento di Reghini ed Evola6, in particolare, si ritiene oggi che l’alchimia consistesse principalmente in un insegnamento spirituale, considerato eretico a causa della repressione dell’Inquisizione. Per questo fu necessario scrivere in codice alcuni concetti: si parlava di “oro” ma si voleva rappresentare l’illuminazione o l’unità con Dio. Il vile metallo rappresentava l’uomo prima del processo alchemico, e l’alchimia era un cammino spirituale verso Dio. La Pietra Filosofale si può associare, dunque, al Graal: entrambe hanno il potere di portare a Dio.

Se per un conto si deve sottolineare che la Pietra Filosofale non è da considerarsi come una vera pietra, così come il Graal, era solo una metafora che rappresentava lo stadio finale dell’illuminazione, per altro conto la teoria della Pietra Filosofale è collegata con quella dello Smeraldo di Lucifero, per suggerire la possibile esistenza materiale di tale smeraldo (Graal) come anche della Pietra Filosofale (è pur vero che anche lo stesso Evola non negò la connessa ricerca metallurgica, pur se ancillare a quella spirituale)7. 
CATARI E GRAAL
“Le cime delle montagne che salgono al cielo e i canyon che si perdono nella notte eterna della Terra hanno sempre deliziato preti e poeti. Sulle vette, la poesia e la preghiera fioriscono istintivamente. L’umanità si sente più vicina a Dio lì. In tutti i grandi miti, la divinizzazione dell’uomo è raggiunta in montagna: il Monte dove Ercole divenne olimpico fu il monte Eta, Cristo venne trasfigurato sul Monte Tabor. 
I trovatori conoscevano tutto questo perfettamente, perchè nel loro tempo, il ponte che univa l’Oriente con l’Occidente lungo il Mediterraneo non era ancora caduto: era il primo arco esteso dalle gigantesche montagne dell’Asia al sacro Paradiso dei Greci, e il secondo da lì ai Pirenei, dove era posto il Giardino delle Esperidi, la luminosa terra delle anime8”.
Otto Rahn negli anni 30 ascese il Monte Picco San Bartolomeo, una delle più belle montagne dei Pirenei, nel passato e ancora oggi chiamato Monte Tabor dalle genti della Provenza. Rahn tentava di seguire il Sentiero dei Catari fino alla vetta del Tabor.
Un giorno incontrò un vecchio pastore che gli raccontò la seguente leggenda:
“Nel periodo in cui le mura di Montsegur erano ancora in piedi, i Catari tenevano lì il Santo Graal. Montsegur era in pericolo. Le armate di Lucifero lo accerchiavano. Volevano il Graal per ripristinare il Diadema del loro principe. Questo si era staccato ed era caduto durante la caduta degli angeli sulla Terra. Quattro Catari riuscirono a fuggire e a portare con sé il Graal.
Nel momento più critico, discese dal cielo una colomba bianca, che con il suo becco, divise il Tabor in due. La colomba era Esclarmonde, il custode del Graal. Ella gettò la preziosa reliquia nelle profondità della montagna. La montagna si chiuse di nuovo, e in questo modo il Graal venne salvato. Quando i demoni entrarono nella fortezza, era troppo tardi.. Furiosi, bruciarono sul fuoco i Puri, non lontano dalla roccia su cui sorge il castello nel campo dei cremati. Tutti i Puri perirono sul rogo tranne Esclarmonde. Quando si seppe che il Graal era al sicuro, Esclarmone si arrampicò fino alla cima del Monte Tabor (“Munt Tabur”, in pronuncia guascone-occitana”) e trasformatasi in colomba bianca volò verso le montagne dell’Asia, ovvero verso est. Esclarmonde non morì. Continua a vivere in un Paradiso Terrestre” 9.
“La notte della caduta di Montsegur, venne visto un fuoco sulla cima innevata della Bidorta. Non era un fuoco di persecuzione ma di gioia. I quattro Catari stavano segnalando ai Perfetti di Montsegur, che stavano per morire, che il Mani era al sicuro10 ”. Di tre di essi il nome è ancora noto, Amiel Aicart, Poitevin, e Hugo, mentre è ignoto il nome del quarto Cataro”.
Il Rahn prosegue: “Dai documenti degli Inquisitori di Carcassonne, risulta che quei quattro Puri, coperti in coperte di lana, discesero dalla sommità del promontorio fino al canyon di Lasset per portare il tesoro degli eretici ad un figlio di Belissena, Pons-Arnaud de Castellum Verdunum, nel Sabarthes 11 ”.
Altre recenti ricerche sostengono, invece, che il Santo Graal dovrebbe essere stato portato nella Spagna settentrionale, sotto la protezione dei Cavalieri templari12 . Su questo ci torneremo tra poco. Dopo l’accenno fatto da Wolfram von Eschembach e riportato in nota, vogliamo prima capire che tipo di rapporti vi fossero tra Catari e Templari.
CATARI E TEMPLARI
“I Templari erano affamati di conoscenza, e la ricerca di essa era la loro principale forza motrice”, hanno scritto Picknett e Prince13. “Hanno rubato conoscenza ovunque si trovassero: dagli arabi presero i principi della geometria sacra e il loro stretto contatto con i Catari aggiunse un tocco gnostico alle loro idee religiose già eterodosse”.

“Sin dai primi anni i Templari hanno mantenuto un certo rapporto cordiale con i catari, soprattutto nel Linguadoca”, hanno osservato Baigent, Leigh e Lincoln14 . “Molti ricchi proprietari terrieri – catari loro stessi o in simpatia con i Catari, avevano donato vaste estensioni di terra all’Ordine …. E’ incontestabilmente provato che Bertrand de Blanchefort, quarto Gran Maestro dell’Ordine, provenisse da una famiglia catara, Nella Linguadoca i funzionari del Tempio erano più frequentemente catari che cattolici” 15 .

Ci sono prove che molti Templari fossero catari ed è stato appurato che i Templari nascosero molti Catari all’interno dei loro ordini e che li seppelissero nei loro terreni sacri.  Nell’importante Commenda templare di Douzens sono stati ritrovati alcuni documenti nascosti in un vaso di terracotta che portano la firma di nobili signori dei dintorni: Pierre Raymond de Roquecorbe, Guillaume de Pont d’Aigues-Vivis, Raymond de Capendu. Gli scritti costituiscono testamenti e donazioni in favore di Isarn de Canois, un vecchio sacerdote di Salsigne e della sua comunità Catara. Tra i beneficiari figura Guillaume Morlane, canonico di Carcassonne e fratello Cataro che aveva ottenuto il Consolamentum dallo stesso Isarn. Sembrerebbe che questi documenti fossero tenuti in custodia nella commenda dell’Ordine del Tempio 16
Oltre al rifiuto templare di partecipare alla crociata contro gli Albigesi, Picknett e Prince hanno documentato il fatto che gli stretti collegamenti tra i Templari e Catari non diventarono capi d’accusa nei processi contro l’Ordine: tanto prova che tali connessioni erano un imbarazzo per la gerarchia ecclesiastica. Questa non voleva fare altro che fare dimenticare i Catari e le loro credenze17 .
Tradizioni spagnole raccontano di numerosi episodi in cui gli eretici fuggitivi trovarono asilo sicuro tra le mura di una magione templare. A questo proposito Juan Atienza scrive: “Si narra la storia di un santo templare venerato nel paese catalano di Puigcerdà, San Duràn, che favorì falsi pellegrini i quali, probabilmente, erano fuggitivi catari che lui aiutò e che accompagnò verso i territori dei Templari, dove i Cavalieri del Tempio aragonese possedevano numerose case nelle quali sarebbe stato possibile dar loro asilo”18.
LA FUGA DEI CATARI VERSO LA SICILIA – SEGNI CATARI A MONTALBANO?
Dopo la Crociata Albigese i Catari sopravvissuti scapparono in paesi vicini: l’Italia era, di fatti, la favorita: per paradosso, la nazione che ospitava il Papa era la meno rigida nella persecuzione degli eretici19 . Altri, come visto prima in questo testo, scapparono in Catalogna attraverso i Pirenei, lungo il percorso ancora oggi chiamato dei “Bons Homes”.
Le cose si complicarono quando il re catalano Giacomo II, fratello di Federico III re di Sicilia, si alleò con il Papa contro Federico III, nel 1295 con il Trattato di Anagni20. Da allora e sempre di più, i Catari Catalani (o Beghini per come venivano ivi chiamati) non goderono più della totale protezione, prima sempre goduta in Catalogna.
Sono documentati i viaggi verso la Sicilia da parte di Catari sia negli ultimi anni del XIII secolo che agli inizi del XIV. Nell’isola, agli inizi del 1300, peraltro, pare esercitasse l’ultimo Diacono Cataro21ancora vivente dopo le persecuzioni (nel dialetto siciliano è rimasto in vita il termine “Bizzocchi”22che designa uno modi con cui venivano appellati i Catari del 1300).
Non per nulla, Papa Martino IV nella Bolla Solebas hactenus mater23, nel 1284, lamentava le protezioni di cui godevano i Catari in Sicilia, da parte del Re Pietro II, padre di Federico III d’Aragona.
Come già detto, Arnau da Vilanova, simpatizzante e protettore dei Beghini catalani, prima di morire nel 1311, aveva fatto promettere al re Federico di dare loro ospitalità24. Ricordiamo ancora che alla sua discepola, la regina Eleonora d’Angiò, nel suo testo Informaciò del 1310, egli ingiunse anche di “organizzare gruppi di preghiera in stile Beghino” (Cataro).
In quel periodo, durante la buona stagione la corte aragonese si trasferiva da Messina a Montalbano.
Abbiamo sopra precisato, che, a nostro avviso, a Montalbano si conservano probabilmente due chiese Catare, circostanza di per sé molto rara vista la metodica distruzione di ogni traccia eretica. Esse sono le chiesette di Santa Caterina e Spirito Santo, realizzate nel 1310 (la prima è stata anche ristrutturata nel 1344). Oggi mostrano bei portali in stile romanico (unici portali in quello stile in Sicilia nel XIV secolo), in tutto e per tutto uguali a quelli presenti nelle chiesette disseminate lungo il percorso dei “Bons Homes” in fuga dalle persecuzioni. In contrasto con il canone architettonico occidentale cristiano, le due chiesette ad unica navata, non hanno né un abside, né un presbiterio né alcuna croce25, per come si confaceva alle credenze dei Catari,  L’abside non era presente poiché i Catari ripudiavano l’ostia consacrata26, considerata, in quanto materia, anch’essa demoniaca, e la croce reputata uno “mostruoso strumento di tortura27”. Una croce è stata aggiunta a Santa Caterina solo nel 1344 grazie al rimaneggiamento di uno dei tre merli ghibellini28.
Esistono altri ricordi o simboli del catarismo a Montalbano?

Sì, ovvero, la statua del Pellicano all’ingresso dell’Argimusco, e di cui parlò anche il Santinelli nel 1658. Il Pellicano, lo abbiamo visto, era un simbolo cristico prima appartenuto ai Catari29e, solo dopo, acquisito a tutta la cristianità30.E’ da dire ancora che la statua della Madonna nera della vicina Tindari richiamava un altro forte simbolismo Cataro31 .

A Montalbano esiste, inoltre, un luogo che avrebbe potuto essere destinato ad una eventuale trasfigurazione (o illuminazione) in qualche modo mediata dalle stelle?
Sì, l’Argimusco, per come da noi illustrato nel corso del libro, è un vero “Speculum astrorum” ovvero uno specchio delle stelle per l’alchimia e la medicina.
E a proposito di illuminazione o trasfigurazione, ricordiamo che l’etimo Argimusco, sta ad indicare “felce o muschio luminoso”, una categoria tipica dell’opus alchemico, ovvero l’irradiazione luminosa del “fuoco cosmico” presente nella rugiada scesa su quelle piante. L’alchimia, è noto, mirava all’illuminazione fisica e non.
Tale illuminazione (o trasfigurazione) fatta su una montagna, in buona sostanza, assomiglia molto a quella che, secondo la tradizione, avrebbero praticato i Catari alla fine del loro percorso fino al Monte Picco San Bartolomeo, da loro rinominato Monte Tabor….
Che vi sia un qualche collegamento tra il Monte Tabor dei Catari e Montalbano?

LA FUGA DEI TEMPLARI  VERSO LA SICILIA – SEGNI TEMPLARI A MONTALBANO?
Come visto prima, i Catari venivano protetti dai Cavalieri Templari. 
Ancora più del fratello Giacomo II32d’Aragona, il sovrano, che dopo gli arresti del 1307, protesse i Cavalieri Templari era stato Federico III d’Aragona, Re di Sicilia. Non solo. Egli giunse a schierarsi apertamente a difesa degli ordini mendicanti protetti dai Templari nel Concilio di Vienne svoltosi tra il 1311 e il 1312, facendo in modo di farsi ivi rappresentare dall’amico e discepolo di Arnaldo da Villanova, il noto medico alchimista catalano Raimondo Lullo33.
Dopo che Filippo il Bello fece arrestare i Templari il 13 ottobre 1307 dove scapparono i superstiti?

La comune vulgata dice che sarebbero fuggiti da La Rochelle, cosa che molti, tra essi la Ralls, reputano il luogo meno idoneo per la fuga34 . Probabilmente, quella fu solo una manovra diversiva.

Da dove partirono allora? Il Grande ammiraglio templare catalano, Ruggero da Flor, ucciso nel 1305, è noto per avere fondato la Grande Compagnia Catalana che per anni fu al servizio di Federico III nelle imprese in Grecia come in Africa. Tra gli avventurieri della Compagnia stava Ramon Muntaner, luogotenente di Ruggero, del cui racconto abbiamo già fatto cenno.
Ruggero da Flor, in  particolare, era stato ammiraglio di Federico III.
La Ralls35 ipotizza che gli uomini di Ruggero De Flor possano avere aiutato i Templari a fuggire dall’Aragona a mezzo della flotta della Compagnia. La stessa studiosa deve, però, ammettere che sul tema non vi è alcuna documentazione di supporto, salvo, diciamo noi, la logica degli avvenimenti storici.
Quale logica? E’ presto detto. Avendo saputo dal loro comandante Ruggero del favore del sovrano Federico III verso i Templari, essi probabilmente scapparono dall’Aragona, e non da La Rochelle. Diretti dove? Con ogni probabilità, verso la Sicilia. Là dove viveva quel re, Federico III d’Aragona, al cui servizio era stato Ruggero. Quel re ospitava inoltre a corte il famoso alchimista Arnau de Vilanova le cui posizioni a favore dei Templari erano da tempo note36.
Chiediamoci adesso se esistono simboli templari a Montalbano.

Un inconfondibile simbolo templare “par excellence” è quello della rosa ad otto petali37, (la rosa a cinque petali era, invece, simbolo cataro) presente sia nelle chiese Catare di Santa Caterina (una rosa) che di Santo Spirito (due rose). Ricordiamo che la rosa era simbolo anche dei Fedeli d’Amore38: anche Dante39era un Fedele d’Amore40, e, forse per questo, come riferisce Boccaccio, avrebbe voluto dedicare il Paradiso al grande re ghibellino Federico III41.
E ancora, altro simbolo numerale templare sono i nove (numero fondamentale per i Templari42) scalini d’ingresso della Chiesa di Santa Caterina.
Sull’Argimusco è, altresì, presente il simbolo templare del Tetragrammaton di cui scrisse Arnau in una sua omonima opera43 . Il Tetragrammaton, ovvero il nome di Dio, inteso da Arnau a tre lettere come la Trinità, il cui simbolo era il Delta in cui lo stesso era inscritto, rappresentava uno dei gradi templari, quello dei “Cavalieri del Delta Sacro”. Sul Delta megalitico44sono, inoltre, presenti degli scalini in numero di nove (alcuni scalini sono in verità erosi o coperti da terriccio), come quelli posti all’ingresso di Santa Caterina.
Ora ricapitoliamo: secondo la leggenda catara citata all’inizio, Esclarmonde nascose il Graal dentro il Monte Tabor. Il Monte Tabor ha nulla a che fare con Montalbano?
UN TESORO A MONTALBANO?
Temiamo di sì, potrebbe, forse, averci a che fare…
Premesso, per come sopra esposto, che è provato che i Catari avessero rapporti stretti con i Templari e che entrambi avrebbero, in tempi diversi, chiesto ospitalità a Federico III, Re di Sicilia, ora riflettiamo…  
La pronuncia del vecchio pastore occitano con cui avrebbe parlato il Rahn, non avrebbe potuto non essere influenzata dalla parlata guascone-occitana tipica di quei luoghi.
Orbene, la parola Monte Tabor pronunciata secondo le regole di pronuncia occitana, antiche e moderne, corrisponde più o meno a “Munt Tabur (Muntabur)45giacchè ordinariamente la “o” si pronuncia “u”.
Come si pronuncia, invece, Montalbano nel dialetto gallo-italico (anch’esso di derivazione occitanica) locale46? Si pronuncia “Muntarbanu47.
Stranamente, le pronunce dialettali dei due toponimi “Muntabur” e “Muntarbanu” sono simili. 
I Catari hanno, dunque, forse portato con sé dalla Catalogna qualcosa poi nascosto in un posto, Muntarbanu, toponimo il cui suono si avvicina al luogo citato al Rahn dal pastore della Linguadoca, località in cui sono presenti tanto chiese che simboli a loro riconducibili?
Il Santo Graal dovrebbe, ovvero, essere stato sepolto e conservato per secoli sotto terra lì, da qualche parte.
E’ stata, forse, condotta qualche rilevazione archeologica sotto il castello aragonese di Muntarbanu?
Ebbene sì: sappiamo che durante i restauri del castello è stata rilevata “una breccia che avrebbe lasciato intravedere una stanza sotterranea”, per come, abbiamo cennato, riferì pubblicamente il nostro compianto amico e co-autore Alessandro Musco48.
Il Graal potrebbe essere stato nascosto, forse, sub rosa, (stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus… per dirla alla Umberto Eco)?49ovvero nei luoghi della rosa ovvero dei Rosacroce?
E’ lì stato nascosto da Federico III, dunque, il tesoro templare, tesoro a lui affidato poiché unico protettore?50 
…Già …un tesoro cataro o templare? O l’uno era anche l’altro?
A pelle, propendiamo per la terza ipotesi.
L’attesa messianica e apocalittica che si respirava poco prima della morte di Arnau ben giustificherebbe l’arrivo di una qualche reliquia sacra portata dai Beghini/Catari rifugiatisi presso la corte Montalbanese, magari sotto l’attenta protezione dei Cavalieri Templari, per come documentato dalle fonti del tempo sopraccitate. Che quella reliquia possa essere veramente il Graal, però, lo ignoriamo.
Ancorchè la traccia degli uomini dell’ammiraglio Ruggero da Flor quali trasportatori dei Templari e del relativo tesoro possa essere interessante, riteniamo che la crisi economica degli ultimi anni del regno di Federico[50] non potrebbe non avere suggerito al custode dell’eventuale tesoro di attingere ad esso, sempre ammesso che esso possa essere stato nascosto in Sicilia.
Crediamo, piuttosto, verosimile che cavalieri Templari abbiano potuto proteggere gruppi di Beghini/Catari nel viaggio verso il Munt Tabur (forse, Muntarbanu?) e che essi possano avere portato qualcosa con loro. I tanti, forse troppi, segni e simboli Catari e Templari concorrono a strutturare questa ipotesi di lavoro.
Future rilevazioni e ricerche potranno, forse, dirci di più. De hoc satis.

PAUL DEVINS & ALESSANDRO MUSCO

 


 

 

 

Note

  1. G. Agrati, M.L. Magini, Introduzione a: Chrétien de Troyes, I romanzi cortesi, Milano 1983, p. V. e ancora AA.VV., Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, Milano 2001, vol. 1, p. 15.
  2. D. H. Green, The Art of Recognition in Wolfram’s Parzival. Cambridge & New York: Cambridge University Press, 1982. e ancora  Edwards, Cyril, “Wolfram von Eschenbach, Islam, and the Crusades,” in James Hodkinson and Jeffrey Morrison (еds), Encounters with Islam in German Literature and Culture (Woodbridge, Camden House, 2009), 36-54 e Bumke, Joachim (2004) Wolfram von Eschenbach J.B. Metzler.
  3. “…A Munsalvaetsche, presso il Graal, si trova una schiera di cavalieri armati. Questi Templari spesso cavalcano lontano in cerca di avventure. Sia che acquistino gloria o danno, compiono le loro gesta come espiazione dei loro peccati. Questa Compagnia è bene armata. Ma voglio dirvi come si nutrono: vivono di una pietra di tipo purissimo. Se non ne avete mai sentito parlare vi dico il nome: lapsit exillis si chiama. […]. La pietra è anche chiamata Graal…” (Parzival, Wolfram von Eschenbach, IX, 469).
  4. Nota tratta da Renè Guenon “Il Re del Mondo” Adelphi: “Alcuni dicono uno smeraldo caduto dalla corona di Lucifero, ma si tratta di una confusione proveniente dal fatto che Lucifero, prima della sua caduta, era l’«Angelo della Corona» (vale a dire Kether, la prima Sephirah), in ebraico Hakathriel, nome d’altronde che ha per numero 666”
  5. Cfr.,The Elixir and the Stone: The Tradition of Magic and Alchemy di M.Baigent e R.Leigh 1997, pag. 34 e ss
  6. Segnaliamo ancora La tradizione ermetica” di Julius Evola, Mediterranee, 1996. Infine, gli scritti del Gruppo di UR citati nel testo, in particolare gli interventi di Abraxas, Ea, Luce, Negri, etc.. In KRUR 1929, Tilopa, a pag. 154 e ss. Evola anticipò i temi del suo testo sopraccitato. Sul tema del Graal vedi Evola in Il Mistero del Graal, Bari, 1937.
  7. “…La chimica moderna ne è invece una deformazione, nel senso più rigoroso della parola, alla quale dette luogo, forse a partire dal Medioevo, l’incomprensione di certe persone che, incapaci di penetrare il senso vero dei simboli, presero tutto alla lettera, e credendo che in tutto ciò non si trattasse che di operazioni puramente materiali si dettero ad un più o meno disordinato sperimentare”. Anche queste persone, prese ormai dall’ossessione della fabbrica dell’oro, fecero qua e là, per caso, delle scoperte e proprio esse sono gli autentici precursori della chimica moderna. Per cui rivela il Guenon non è una evoluzione o un progresso che dall’ermetismo e dell’alchimia iniziatica si giunge alla chimica, ma proprio all’opposto con una degenerescenza…”, vedi “La Tradizione Ermetica” di Julius Evola, Edizioni Mediterranee, 1996, pag 187/88.
  8. Nostra traduzione di Otto Rahn “Crusade between the Cathars, the Templars, and the Church of Rome”(First English Translation by Christopher Jones), 1934/2006, pag. 46
  9. Otto Rahn, ibidem  pag. 107
  10. Otto Rahn, ibidem, pag. 175
  11. Otto Rahn, ibidem, 175
  12. The knights Templar in Spain, Juan Garcia Atienza, Destiny Books
  13. Nostra traduzione di passaggi di “The Templar Revelation: Secret Guardians of the True Identity of Christ” Lynn Picknett and Clive Prince 1997
  14. Nostra traduzione di passaggi di  “The Holy Blood and the Holy Grail” Michael Baigent, Richard Leigh and Henry Licoln, 1982,  Jonathan Cape
  15. Blanchefort, che ha guidato i Templari tra il 1153 e il 1170, è stato il più significativo tra tutti i grandi maestri templari. E’ stato il Cavaliere Templare Bertrand che ha trasformato i templari nell’istituzione superbamente efficiente, ben organizzata e disciplinata in modo gerarchico che è poi diventata.
  16. Jacques Dubourg, “Les Templiers dans le Sud- Ouest” ; Pollina-a-Lucon 2001(pag. 149)
  17. Christ Lynn Picknett and Clive Prince, ibidem, pag. 201
  18. Juan Atienza, “Los Templarios”, Madrid 1992 ( pag. 35). Gauthier Langlois scrisse: « Essa (la commenda templare di Mas Déu) intratteneva da molto tempo relazioni con alcuni signori eretici del Rossiglione e del Fenolhèdes: accolse Pons de Vernet e Pierre de Saissac-Fenolhet che saranno più tardi oggetto di un processo post mortem.”(vedi Gauthier Langlois “Les Templiers en pays catalan”, Canet 1998, pag. 66/67). Del resto anche lo stesso Robert Vinas si dimostra in questo senso molto categorico: “Gli studi di Jorge Ventura Subirats sui Catari in Catalogna non lasciano più alcun dubbio sulla penetrazione dell’eresia nel Rossiglione e nel Fenouillèdes all’inizio del XIII secolo in un certo numero di famiglie nobili che costituivano il vivaio da cui venivano recrutati i Templari e allo stesso tempo lo strato sociale che li fornisce di donazioni. Alcuni membri di queste famiglie sono entrati nella confraternita di Mas Déu, lì hanno terminato i loro giorni, si sono fatti seppellire in terra cristiana dopo aver provveduto a generose donazioni pensando di essere così protetti contro processi, interdetti, confische e anche scomuniche. Questo non ha impedito processi post mortem come nel caso di Pons de Vernet, Arnaud de Mudagous e Pierre de Fenouillet a partire dal 1260, da quando re Giacomo non poté più temporeggiare dinanzi all’Inquisizione.” (vedi Robert Vinas, Les Templiers en pays catalan », Canet 1998 (pag. 32-33)
  19. Picknett e Prince, ibidem
  20. Papa Celestino V, ad Anagni, il 12 giugno del 1295 stipulò con Giacomo II e con Carlo II d’Angiò il Trattato di Anagni. Con questo accordo, Giacomo, oltre a restituire i tre figli di Carlo II che aveva in ostaggio da circa sette anni acconsentì a consegnare la Sicilia al papa, che a sua volta l’avrebbe riconsegnata agli angioini, in cambio dei regni di Sardegna e di Corsica, se li avesse saputi conquistare, e avrebbe sposato Bianca di Napoli, la figlia di Carlo II d’Angiò, ed inoltre Federico, il governatore della Sicilia sarebbe stato compensato dal matrimonio con l’erede dell’impero d’oriente, Caterina Cortenay, figlia dell’imperatore titolare Filuppo I e di Beatrice d’Angiò. Infine il trattato prevedeva la riconsegna del regno di Maiorca, vassallo della Corona d’Aragona, allo zio di Giacomo, Giacomo II di Maiorca. Il fratello, Federico, amareggiato, anche perché Giacomo non aveva ottemperato al testamento di Alfonso III, rifiutò e si schierò con i Siciliani che, sentendosi traditi dal nuovo re Aragonese, dichiarato decaduto Giacomo, lo elessero al trono di Sicilia. L’undici dicembre 1295 il Parlamento Siciliano, a Palermo, proclamò Federico III Re di Sicilia, e riconfermò la scelta il 15 gennaio 1296 al Castello Ursino di Catania. L’incoronazione ufficiale avvenne il 25 marzo 1296 nella Cattedrale di Palermo.
  21. Il Catarismo italiano e i suoi vescovi nei secoli XIII e XIV” di Savino Savini, Le Monnier 1958 pp. 175
  22. Nelle bolle Sancta Romana atque universalis Ecclesia, del 30 dic. 1317, e Gloriosam Ecclesiam, del 23 genn. 1318 papa Giovanni XXII prendeva di mira i gruppi di “fraticelli, bizzocchi o beghini di ogni obbedienza”, nonché gli appartenenti a congregazioni non riconosciute dalla Sede apostolica.
  23. “Passim inibi, sicut per Inquisitores hereticae pravitatis accepimus, receptantur Haeretici, proteguntur, proctetique in eiusdem Fidei derogationem horrendam quotidie moltiplicantur” (”Bolla Solebat hactenus mater” Papa Martino IV) e ancora Jacopo Manna “L’iconografia nel medioevo Italiano. Un problema di iconografia”. Alcune testimonianze rese davanti agli inquisitori francesi fanno pensare ad una vera e propria emigrazione di boni homines fuggiaschi dalla Provenza alla Sicilia tramite il porto di Genova. L’ultima fuga è del 1307“ (vedi Il Catarismo italiano e i suoi vescovi nei secoli XIII e XIV” di Savino Savini, Le Monnier 1958, pag. 172-174 e ancora vedi A History Of The Inquisition Of The Middle Ages di Henry C. Lea, Kessinger 2004 pag. 120 “…we hear constantly of refugees from Toulouse and Carcassone flying to Lombardy and even to Sicily…” e pag. 240 “…the pilgrims thither had no trouble in finding their fellow-believers (…) in the kingdom of Sicily…”).  Nel 1309 Guillem Falquet confessò a Tolosa di essere stato quattro volte a Como ed anche in Sicilia per organizzare la chiesa catara (vedi A History Of The Inquisition Of The Middle Ages di Henry C. Lea, Kessinger 2004 pag.50). Il credente Cataro Jean Mauri durante la Inquisizione de Pamiers ricordava come il cataro catalano Raimond de Granadella che viveva nel territorio catalano gli aveva commentato in qualche occasione che “había muchos como él en Sicilia”. “Muchos beguinos, cuando fueron perseguidos por la Inquisición emigraron hacia Sicilia, igual como también hicieron muchos cátaros” (Sergi Grau Torras, Durand de Huesca y la lucha contra el catarismo en la corona de aragón Anuario de estudios medievales (aem) 39/1, enero-junio de 2009 pp. 3-25 issn 0066-5061, pag. 22 e J. Duvernoy, Le registre de L’Inquisition de Jaques Fournier, T. III., p. 874). Picknett e Prince notano che dopo la Crociata Albigese i Catari sopravvisuti scapparono in paesi vicini e l’Italia era la favorita: pur essendo per paradosso la nazione che ospitava il Papa, essa era la meno rigida nella persecuzione degli eretici. Ovviamente aggiungiamo noi scapparono nella terra, la Sicilia, ove unico caso, un re aveva fatto giuramento di ospitalità verso di loro. Il credente Cataro Jean Mauri durante la Inquisizione de Pamiers ricordava come il cataro catalano Raimond de Granadella che viveva nel territorio catalano gli aveva commentato in qualche occasione che “había muchos como él en Sicilia”. “Muchos beguinos, cuando fueron perseguidos por la Inquisición emigraron hacia Sicilia, igual como también hicieron muchos cátaros”.
  24.   Informaciò espiritual al Rei Frederic de Sicilia di Arnau de Vilanova Obres Catalanes i. 223–43
  25. Vedi Schmidt, Storia e dottrina della setta dei Catari o Albigesi. Parigi-Ginevra, 2 vo1.Vol. Moneta, pp. 112, and 461.
  26. I catari confutavano i sacramenti del battesimo e della comunione (eucaristia) poiché, essendo l’acqua del battesimo e il pane dell’ostia fatti di materia impura, non potevano avere in sé lo Spirito Santo.
  27. Nell’Interrogatio Iohannis, vangelo apocrifo utilizzato dai Catari, si tratta di una conversazione tra San Giovanni e Gesù Cristo durante l’ultima cena: “Da quando il Diavolo decadde dalla gloria del padre e volle la propria gloria, egli sedette sulle nubi e, mandò i suoi servitori, gli angeli, fuochi fiammeggianti, sulla terra in mezzo agli uomini da Adamo fino ad Enoc. E mandò il suo servitore e innalzò Enoc sopra il firmamento; gli rivelò la propria divinità e comandò che gli fossero dati penna ed inchiostro: egli sedette e scrisse sessantasette libri. Poi gli comandò di riportarli sulla terra e li trasmise ai propri figli cominciando ad insegnare loro il modo di celebrare i sacrifici ed i misteri iniqui. Quando Satana seppe che ero disceso giù dal cielo nel mondo, mandò un angelo: questi prese dei pezzi di legno da tre alberi e li diede a Mosè perché fossi crocifisso: essi sono stati conservati fino ad oggi per me. (…)”. La croce fu, pertanto, per i Catari uno strumento diabolico concepito da Satana.
  28. Il terzo merlo ghibellino, quello di destra, è stato demolito per fare posto al campanile con la data dei restauri (1344). Oggi i merli ghibellini sono stati vandalicamente asportati dal castello aragonese del più grande re ghibellino della storia, Federico III d’Aragona re di Sicilia, in nome di “restauri” finanziati dalla Unione Europea. Incredibile…!
  29. Jean Duvernoy, La Religios des Cathares, 1976, V. 13, Descente en ce monde et kénôse : parabole du pélican, p. 82
  30. “Questi è colui che giace sopra il petto del nostro pelicano, e questi fue di su la croce al grande officio eletto” (Dante Paradiso XXV, 114). Tra breve discuteremo del rapporto tra Dante e Catari e Templari. Il Pellicano cataro fa richiamo ai Salmi ove è scritto “Similis factus sum pelicano solitudinis” (101,7). La metafora del pelicano era già adoperata dai Pauliciani predecessori dei Catari nei secoli X e XI, vedi P.Sedir Il segreto dei Rosacroce, G.Casini, 2010, pag. 15.
  31. Karen Ralls “I Templari e il Graal”, Mediterranee 2004, pag. 105
  32. All’inizio anche Giacomo II difese i Templari scrivendo addirittura al Papa e ai sovrani di Castiglia e Portogallo. Successivamente agli arresti ordinati nel 1307 dal sovrano di Francia Filippo il Bello finse una finta compiancenza. I processi vennero svolti senza fare ricorso ad alcuna tortura.    Nessuno dei templari incarcerati confessò alcunchè con grande disappunto del Papa e di Filippo il Bello. Decretati innocenti, il Concilio ecclesiastico di Tarragona ne ordinò la scarcerazione nel 1312 (vedi Karen Ralls “I Templari e il Graal”, Mediterranee 2004, pag. 107)
  33. Alessandro Musco, a cura di, in Backman C.“Declino e caduta della Sicilia medievale”, 2007, pagg. 207-210
  34. Karen Ralls “I Templari e il Graal”, Mediterranee 2004, pag. 42
  35. Karen Ralls, ibidem, pag. 41 e 42
  36. Sui templari Arnau dice nel Expositio super Apocalypsi, «ECCLESIA LAODICIE respicit primo et principaliter septimum et ultimum tempus Ecclesiae militantis, quod post mortem Antichristi curret usque ad finem mundi. Secundario respicit statum regularem Christo militantem, ram corporaliter quam spiritualiter, ut est status Hospitalariorum et Templariorum et Uclesii et Calatravae et similium…». In una lettera a Giacomo II Arnau considera i cavalieri templari come uno dei segni positivi del settimo tempo della Chiesa che seguirà la morte dell’Anticristo (Ad Jacobum Il de Templariis).
  37.  Citiamo un passo di un pregevole articolo dell’amico Ignazio Burgio: “…Quando nel 1782 nella Cattedrale di Palermo venne aperto il sarcofago di porfido rosa contenente il corpo di Federico II di Svevia a scopo di studio e ispezione, si scoprì che lo “Stupor Mundi” era stato sepolto non con un saio da cistercense, come riportato dalle cronache del suo tempo, bensì con tre tuniche sulle quali erano ricamati arabeschi e simboli esoterici. Uno di questi era costituito dal fiore ad otto petali, una figura alla quale l’imperatore svevo sembra fosse particolarmente legato, tanto che la sua salma recava ancora al dito un anello la cui forma era anch’essa quello di un fiore ad otto petali. La simbologia del numero otto, d’altra parte, come è  abbastanza noto, ritorna anche nel suo monumento più famoso, Castel del Monte, in Puglia, nel quale l’orientamento degli otto lati e delle otto torri incontra non solo precise corrispondenze astronomiche nel corso delle diverse fasi solari, ma anche perfetti allineamenti geografici con i più importanti centri europei e mediterranei dell’epoca (in primo luogo con Costantinopoli e Gerusalemme, di cui Federico era formalmente anche sovrano). L’imponente castello ottagonale del sovrano svevo in un certo senso sembra avere (oltre che quello di una corona imperiale) anche il disegno di una rosa ad otto petali come il simbolo a lui così caro…” (Gli otto angoli del cielo. origine, significato e storia degli enigmatici simboli artistici e architettonici ad otto elementi di Ignazio Burgio su Internet). Il numero otto indica anche l’ottavo giorno della creazione, ossia la nuova creazione che inizia con la resurrezione di Cristo, per cui l’otto indica la rinascita attraverso il battesimo, della resurrezione, della vita eterna.
  38. Vedi Pietro Negri Il linguaggio segreto dei Fedeli d’Amore, UR 1928, pag. 70 e ss e i riferimenti al  prezioso lavoro di Luigi Valli. Il Valli ricorda “la formula dei Rosacruciani riassumente il processo d’innalzamento attraverso il dolore e attraverso la fede fino alla verità santa, contemplazione di Dio, suona com’è noto: Per Crucem ad Rosam”, e ancora, “Ebbene se si voglia riassumere in una formula brevissima il pensiero di Dante nella Divina Commedia, nel quale non la Croce sola, ma anche l’Aquila sono i mezzi attraverso i quali la Grazia conduce l’uomo alla visione beatificante di Dio che avviene in una Rosa candida nell’Empireo, potremmo usare la formula: «Per crucem et aquilam ad rosam». La grande idea della Croce veniva a Dante dalla tradizione cristiana e cattolica, la grande idea dell’Aquila dalla tradizione di Roma e dal suo fervore di ricostituzione civile nell’ideale universalistico dell’Impero; la grande idea della Rosa dalla tradizione mistica dei “Fedeli d’Amore”. (cfr., Luigi Valli “Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore» Luni 1994, pag. 304). Nel saggio di Reghini si veda inoltre l’importanza data dai Fedeli d’Amore o Cavalieri del Delta templare al numero 9 (9 come multiplo del 3, delta).
  39. Sul rapporto tra Dante e i Templari si veda Valli “…L’ipotesi che la setta dei «Fedeli d’Amore» sia stata una specie di filiazione segreta dell’ordine dei Templari o che abbia in qualche modo aderito a esso, che ne abbia in parte seguìto i riti, che sia stata sotto la sua alta dipendenza e abbia sofferto indirettamente della tragedia dei Templari che si svolge proprio nella maturità della vita di Dante e forse sotto i suoi occhi a Parigi, è per me un’ipotesi serissima nella luce della quale si spiega un grandissimo numero di fatti….” (cfr., Luigi Valli “Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore» Luni 1994, pag. 322) e ancora, si vedano le parole dello stesso Dante: nella condanna pronunciata dal suo avo Ugo Capeto (Purgatorio XX, 91-3) si parla di Filippo come il nuovo Pilato che è tanto crudele… e qui Ugo Capeto maledice i suoi discendenti, tra cui Filippo il Bello, sia per l’oltraggio di Anagni sia per la distruzione del Tempio. In Purgatorio VII. 110, la vita di quel monarca, tristemente bigotto e dalle ambizioni sfrenate, è descritta come viziata e lorda. Non solo, ma Dante lo detestava apertamente. Per lui, Filippo era il mal di Francia (Purg. VII, 109). Dante era probabilmente un iniziato della Chiesa Albigese, un Cataro, ossia un puro, un Fedele d’Amore, anche se la Chiesa di Roma non lo ha mai ammesso. E qui ha ragione Luigi Valli quando nel suo libro Il linguaggio segreto afferma che “La questione dei Fedeli d’Amore non s’inquadra nel suo spirito fra le cortesie feudali e i canti di Calendimaggio. Si deve inquadrare fra la strage degli Albigesi e quella dei Templari.” Non per niente chi gli appare e chi lo guida nella sua Commedia è Bernardo di Chiaravalle, colui che stabilì la regola dell’Ordine del Tempio, e lo esorta a non guardare in basso. E San Bernardo (1090-1153), che la storia riconosce come l’uomo più colto del mondo di allora, è proprio quello che fa della donna la “Rosa mistica” per la quale si batte il Cavaliere Templare, segno che si ritrova anche nell’antica abbazia cistercense di Casamari. In un passo della Commedia si accenna alla vicenda templare, lì dove dice che “il nuovo Pilato sì crudele, che ciò nol sazia, ma senza decreto porta nel tempio le cupide vele. O signor mio, quando sarò io lieto, a veder la vendetta che nascosa, fa dolce l’ira tuo nel tuo segreto?” (Purgatorio, canto XX, 86-96). Il rapporto di Dante coi Templari poi è indirettamente confermato anche dal giudizio che Dante dà di Clemente V, definito nell’Inferno un “pastor senza legge”, e, nel Purgatorio, “puttana sciolta” (in tutto Clemente V viene nominato 6 volte, e sempre presentato in modo pessimo). Nel canto 30 del Paradiso Beatrice è descritta nell’Empireo, contornata e protetta dal “convento delle bianche stole”, che, secondo una versione, potrebbero essere le bianche stole dei cavalieri templari. Nel canto 27 del Purgatorio, v. 15 e ss., invece, Dante si dice spaventato dal fuoco, perché gli ricorda “umani corpi già veduti accesi”. Ora, è difficile pensare che Dante sia spaventato per un semplice fuoco, dato che era già passato per l’inferno e per prove peggiori; lo spavento potrebbe invece essere dovuto al fatto che Dante ricorda probabilmente il rogo in cui morì Jacques de Molay, secondo alcuni commentatori, cui pare che Dante avesse assistito personalmente (si veda sul tema l’interessante studio “Dante templare, massone, rosacrociano, eretico, anticattolico ed incompreso” di Paolo Franceschetti su internet)
  40. Beatrice dice a Dante nella Commedia “Perchè la faccia mia sì t’innamora che tu non rivolgi al bel giardino che sotto i raggi di Cristo d’infiora? Quivi è la rosa, in che il verbo divino carne si fece; quivi son li gigli al cui odor si prese il buon cammino” (Paradiso, XXIII, vv.70-75). Nel Convivio Dante poi dice: “E conviensi aprire l’uomo quasi come una rosa che più chiusa stare non puote, e l’odore che dentro generato è spandere”. La rosa è per Dante l’Ecclesia spiritualis costituita dai “perfetti”, così come per i Catari. Sulle connessioni tra Dante, i Catari e il simbolo della rosa vedi il testo di Adriano Lanza “Dante e la Gnosi: esoterismo del Convivio”, Mediterranee 1990. Vedi ancora Pietro Negri “Il linguaggio segreto dei Fedeli d’Amore”, UR 1928, pag. 70 e ss. Ancora, Dante e Beatrice si ritrovano nel cielo delle stelle fisse (Divina Commedia Paradiso XXII-XXXII) ovvero nell’ottava sfera. L’ottava sfera era per Thebit e per il suo epigono, Arnau de Vilanova, come per Dante, il cielo delle stelle fisse, quello delle costellazioni. Abbiamo visto che un testo, importantissimo nell’ambito culturale dell’astronomia europea e catalana, cui fortemente Arnau si ispirò sull’Argimusco era quello di Al-Sufi, il Liber locis stellarum fixarum o “Libro de las figuras de las estrellas fijas de la octava esfera”.
  41. Nella lettera di Frate Ilaro inserita dal Boccaccio nel suo Zibaldone (Zibaldone Laurenziano del Boccaccio, manoscritto 29.8 della Biblioteca Laurenziana di Firenze, a c. 67r) questi scrive “[XIV] Si vero de aliis duabus partibus huius operis aliquando Magnificentia vestra perquireret, velud qui ex collectione partium adintegrare proponit, ab egregio viro domino Mor[o]ello marchione secundam partem, que ad istam sequitur, requiratis; et apud illustrissimum Fredericum regem Cicilie poterit ultima inveniri. Nam, sicut ille qui auctor est michi asseruit se in suo proposito destinasse, postquam totam consideravit Ytaliam, vos tres omnibus preelegit ad oblat[i]onem istius operis tripartiti” ovvero “[XIV] Se poi la vostra Magnificenza volesse mai avere notizie delle restanti altre due parti di quest’opera, con l’intento di completarla radunandola intera, farà richiesta della seconda parte che segue questa prima all’egregio Signore il Marchese Moroello; mentre l’ultima parte si potrà trovare presso Federico re di Sicilia. Infatti, secondo le affermazioni a me fatte dall’autore circa la sua decisione di destinare l’opera, dopo aver considerato l’intera Italia, scelse voi tre per offrire questo lavoro tripartito”. Altre notizie sono riportate da Boccaccio anche nel Trattatello (c. XXXVI) e nella seconda redazione dell’elogio (C. XXIII). Boccaccio ci dice ancora che: ”Il nostro Dante fu congiunto di stretto nodo d’amicizia con Federico d’Aragona re di Sicilia” (Boccaccio, De Genealogia deorum lib XIV, cap XII)
  42. Nove è un numero importante poiché 9 erano i cieli, nove erano i fondatori tradizionali dell’Ordine del Tempio e 9 le provincie del Tempio di Occidente, etc.. – Le parole fondamentali del gergo dei Fedeli d’Amore sono nove, che è il numero destinato a indicare solamente le cose di suprema importanza, come il concetto di Beatrice. Si noti, infine, che la Regola dei Templari, redatta da Bernardo di Chiaravalle, si componeva di 72 articoli. Altra considerazione interessante è la teurgia templare, per la quale all’ora del Vespro i cavalieri templari dovevano recitare nove Pater Noster.
  43. Allocutio super significatione nominis Thetragrammaton di Arnau de Vilanova. Il Delta presente dietro il megalite della Vergine è un’altra delle prove della presenza di Arnau sull’Argimusco: tra i gradi templari vi erano, infatti, i “Cavalieri del Delta Sacro”. Loro compito “custodire con fedeltà il tesoro della sapienza tradizionale, sempre velandolo a coloro che non sappiano penetrare nel “terzo cielo”. Dall’orfismo e dal pitagorismo sappiamo che il terzo cielo è quello di Venere (P.Negri Il linguaggio segreto dei Fedeli d’Amore, UR 1928). Il delta era il simbolo del Tetragrammaton ovvero il nome di Jahve (“יהוה“): Joth, Heth, Van (Vau), Heth. Di esso Arnau tratta estesamente nel suo libro Allocutio super significatione nominis Thetragrammaton. Arnau, nel testo, riduce le lettere del Thetragrammaton da quattro a tre (delta) per ricondurre il nome di Dio alla Trinità cristiana, seguendo anche l’insegnamento ebraico cui era stato introdotto dall’ebreo convertito Ramon Martì.
  44. Che il Delta possa essere il Delta templare ce lo conferma il metodo qui da noi adottato dell’analisi crono-sistemica: ovvero, lì vicino insistono un sestante medievale di pietra arabo (inventato da Abu-Mahmud al-Khujandi nel 994), una civetta alchemica, un pellicano Cataro medievale, un salnitro alchemico, etc.. Ne riviene che il simbolo del Delta dovrebbe essere ragionevolmente quello Templare medievale.
  45. Vedasi “regole di pronuncia dell’occitano” dal sito internet: https://sites.google.com/site/linguadelpiemonte/home/la-lingua-piemontese-seconda-parte/regole-pronuncia-occitano. Oggi oltre che in alcuni paesini Siciliani, San Fratello, Novara di Sicilia, Sperlinga, etc.., l’occitano si parla in alcune valli del Piemonte come la Val di Susa o Val Chisone. 
  46. È noto che tanto Montalbano che i paesi vicini come Novara di Sicilia e San Piero Patti erano stati, tra il  XII e il XIII secolo, territori di insediamento di coloni lombardi che parlavano una lingua (più che un dialetto) chiamata gallo-italica anch’essa di matrice provenzale/occitanica. Nel 1232 i coloni di Montalbano vennero in massima parte deportati ad Augusta da Federico II. Montalbano venne scelta come sede della Corte Reale aragonese per il gran numero di abitazioni vuote in cui si insediarono le centinaia di baroni e personaggi di corte Aragonesi descritti dal Muntaner oltre che per i già descritti motivi logistico militari legati al passaggio della via Francigena. 
  47. Vedi voce Montalbano su wikipedia
  48. Intervista ad Alessandro Musco su Centonove n. 10 del 16 marzo 2012, pag. 39
  49. stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus (“la rosa, che era, [ora] esiste solo nel nome, noi possediamo soltanto nudi nomi”) è una variazione di un verso del De contemptu mundi di Bernando Cluniacense, monaco benedettino del XII secolo. Essa deve la sua fortuna a Umberto Eco che ne ha fatto l’ultima frase del suo romanzo Il nome della rosa.
  50. Alessandro Musco, a cura di, in Backman C.“Declino e caduta della Sicilia medievale”, 2007, pagg. 67 e ss.

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