Argio ci rivela il significato del toponimo di “Argimusco”?

2018-03-02T18:12:44+00:00 25/02/2014|Uncategorized|0 Comments

(TRATTO DA ARGIMUSCO DECODED DI PAUL DEVINS E ALESSANDRO MUSCO – 2013)
Siamo arrivati alla fine del nostro viaggio. Abbiamo, in ultimo, incontrato il personaggio principale del sonetto del Santinelli, Argio.
Il nome di Argio ci fa, ora, porre un problema.
Cosa vuole dire “Argimusco” o “Argimosco”? All’inizio di quest’opera ci eravamo rimessi alla vulgata corrente negli studi degli storici locali ovvero “Altopiano dalle ampie propaggini”. 1
Ci spiaceva, dovere portare la nostra eresia “anti-preistorica” alle estreme conseguenze. Gli amanti della tesi preistorica ci sono simpatici.
Ora, però, lo diciamo: il toponimo non ha quel significato, ma ben altro. E molto più coerente con i luoghi e le loro caratteristiche tanto storiche quanto ambientali. 
Chi è stato nel bosco di Malabotta ha certamente notato la grande quantità di muschi 2attaccati a massi o a pluricentenari alberi di roverella. Chi è stato sul pianoro di Argimusco non può non avere osservato la foresta di felci ivi presente. 
Muschio in latino si diceva “muscus”, in catalano “musgo”. In greco “muschio” si diceva “Bryon”. La felce si diceva in greco “pteris”.
Cosa hanno in comune felce e muschio? Che appartengono alla stessa famiglia di piante del genere Lycopodium. Leggiamo cosa scriveva il Marchi nel 1828: “Briotteride, Bryopteris, stor. Nat. Da “Bryon”, musco, e da “pteris”, felce. Specie di piante del genere Lycopodium 3, le cui piante sono sopra loro stesse rivolte come quelle delle felci”4.
Dunque, sia felce che muschio appartengono alle piante Briotteridi 5. Anche se volessimo non forzare troppo la mano abbandonando l’accostamento della felce con il muschio, non potremmo non notare che il toponimo di Argimusco è indicatore della presenza catalana sul sito e nei paraggi.
“Argimuscus”, dunque, sarebbe stato il nome latino e “Argimusgo” avrebbe dovuto essere il toponimo in pronuncia Catalana.
Nel 1282 ricordiamo che Pietro III d’Aragona passò dai luoghi chiamando il sito “Argimustus” (il Re e il suo seguito non notarono, singolarmente, alcuna struttura megalitica o di statue…)6.
Argimustus, dunque, fu poi mutato nel giro di pochi anni in “Argimuscus” già nella sopraccitata lettera di Federico III a Giacomo II del 16 luglio 1308.  
Il termine Argimustus (con la t), dunque, potrebbe essere stato o un errore di Bartolomeo di Neocastro o un errore di qualche successivo scrivano che non avrebbe saputo copiare bene il termine latino Argimuscus.
Tanto precisato, cosa vorrebbe dire il termine “Argi”?
Abbiamo visto che il termine richiama il personaggio principale, Argio, del sonetto Carlo V del Santinelli che, guarda caso, presenta Arnau de Vilanova, in un ambiente molto simile all’Argimusco e alla vicina Montalbano.
Argio ci può aiutare? Vediamo.
La figura di Argio, come si è detto, nasconde il Santinelli. Egli compare fin dall’inizio del poema nella sua carica di “cameriere segreto” e nella sua qualità di “filosofo ermetico”: “Frettoloso comparve il saggio Argio che l’uscio Imperial chiude ….”. Il nome Argio è un chiaro riferimento al periplo degli Argonauti che vela il suo periplo alchemico7

Argi – Deriva dal greco antico  άργος (argos), che significa sia “splendente”, che “luccicante”. Il termine è etimologicamente correlato al nome Argia (Argio). 8

Cerchiamo ora di capire. Il termine “splendente”, “luccicante” ha nulla a che fare con l’Argimusco o con le, da noi supposte, pratiche alchemiche?

Per capirlo, torniamo al tema dei metalli. Per fare questo ci riferiamo brevemente a testi di due autori, Evola e Kircher, che ci hanno spiegato il vero senso dell’Oro alchemico. 
“La produzione dell’oro metallico, non era né un fenomeno sensazionale né un’acquisizione scientifica. Si trattava invece della produzione di un “segno”. E’ ciò che il cattolicesimo chiamerebbe propriamente un miracolo, in opposto al fenomeno; ancor meglio ciò che il buddismo chiama “miracolo nobile” in opposto a quelli volgari, i quali perfino quando sono fenomeni estranormali, non incorporano alcun significato superiore. La produzione dell’oro metallico era cioè una testimonianza trasfigurante data da un potere: testimonianza dell’aver realizzato in sé, l’Oro.  Senonchè con il diffondersi dell’alchimia in Occidente queste conoscenze subordinate si separarono dal resto e si disanimarono. E il desiderio e la cupidità per l’oro puro e semplice, per l’oro spendibile, fecero il resto. E così che nacque quell’alchimia che può essere considerata come lo stadio infantile della chimica scientifica. (…)”9.
E ancora: “Dice il volgo nella Turba10:”il nostro Oro è il Sole, il Sole luminoso, che riscalda, altera, corrompe, putrefa, digerisce, genera, rarefa, scioglie, illumina le altre stelle”, e ancora:  (…) La Turba proclama: “il nostro Oro può essere moltiplicato all’infinito” 11
“Le corrispondenze simboliche: Anima=Solfo (o Fuoco, o Sole, o Oro); Spirito=Mercurio (o Acqua o Luna o Argento); Corpo=Terra (o Sale) sono esplicite e uniformi nei testi ermetici12 e non si comprende proprio il nessun conto che di esse ha tenuto la critica moderna”13
Abbiamo sentito cosa volesse dire il termine Oro/Sole per gli alchimisti. Per quale motivo, dunque, la felce o il muschio sarebbero stati, dunque, luccicanti?
Si trattava di rugiada posata su di essi, per come insegnano innumerevoli testi alchemici? Ovvero erano luccicanti in connessione con l’utilizzo alchemico finalizzato alla conquista dell’oro filosofale, per come descritto prima in questo testo?
Per rispondere citiamo, ancora una volta, tra i numerosissimi (e complicatissimi testi alchemici) il Mutus Liber. In esso  viene descritto il Magnum Opus. Il primo livello del processo alchemico, qui riportato in una delle tavole del Liber, prevede la raccolta della rugiada ove le cinque lenzuola stese, si impregnano del pregiato liquido, e l’uomo e la donna provvedono a strizzarlo in una bacinella. Il potente influsso cosmico di cui la rugiada è latrice è simboleggiato dal fascio di lame di luce che proviene da un punto centrale nel cielo, a metà via tra le due polarità, il Sole e la Luna.
La rugiada era, dunque, latrice di un influsso cosmico rappresentato con raggi di luce. La rugiada, posata sulle felci e sul muschio, rendeva, dunque, luminose le felci o i muschi irrorati, al mattino.
La luccicante rugiada, colta con le lenzuola al mattino nel Mutus Liber, era, dunque, la stessa che oggi ci appare all’esame logico e semantico del significato del toponimo connessa con la presenza culturale alchemica ipotizzata sul sito di Argimusco?
E’ molto probabile. Tale asserzione viene suffragata tanto dalla contestuale presenza di indiscutibili simboli alchemici quali il salnitro, la civetta, l’alambicco e il pellicano, quanto dal fatto che nella cultura dell’epoca “l’alchimia era l’astrologia del sottoterra”: e l’Argimusco era innanzitutto, e rimane, se non il più importante, uno tra i più grandi siti astronomico-astrologici al mondo. 
Dunque, Argimusco letteralmente significherebbe: “muschio (o felce) luccicante”. 
Se ora rimettiamo insieme tutte la massa di scoperte documentali e storiografiche sulle tecniche medico- astrologiche e alchemiche illustrate in questo testo, la spiegazione da noi data al toponimo prende una sua lucida e inoppugnabile coerenza. 
Per questo motivo non abbiamo voluto anticipare all’inizio dell’opera la rivelazione sul significato del toponimo.
Vogliateci perdonare. Questo lungo e estenuante viaggio ci ha condotto, infine, alla stessa voce, al verbum di partenza, da cui siamo partiti, Argi-Musco.
Nomina sunt consequentia rerum. Amen.
PAUL DEVINS & ALESSANDRO MUSCO
….E IL TOPONIMO “MALABOTTA”?
Il sito di Argimusco era all’epoca parte del demanio reale?
Un documento, dotato di epistola di ratifica da parte di Papa Innocenzo III del 17 giugno 1211, attesta che “Montalbano con tutti casali e tenimenti suoi”, per disposizione di Federico II di Svevia, era entrato a far parte del “dodario” (la dote) della moglie Costanza d’Aragona e, come tale, apparteneva al demanio regio, sotto il controlIo diretto della corona14 . Certamente faceva, dunque, parte del demanio regio di Montalbano anche il bosco di Malabotta, riserva di caccia, e la importante strada che ivi vi passava. 
Abbiamo notizie di un passaggio di là da parte del Re aragonese Pietro III 15. Suo figlio Federico III ivi vi trascorreva l’estate: da lì, ricordiamo, nel mese di luglio 1308 Federico aveva mandato un importante documento diplomatico a suo fratello Giacomo II.
Il re Federico III, dunque, possedeva qualche fortilizio, ove risiedeva, nei dintorni dell’Argimusco. Riteniamo che, con ogni probabilità, si trattasse del Castellaccio, oggi ridotto a rovina, ed individuato da Ferdinando Maurici. Il Castellaccio si trovava in effetti lungo la strada che conduceva da Montalbano, via Argimusco, a Santa Domenica Vittoria e poi a Randazzo, sede di altro palazzo reale e da cui iniziava l’antica strada romana per Palermo. Dal Castellaccio il Re si muoveva per andare nel bosco di Malabotta ove andava a caccia16 , per come dice la tradizione locale17 . Non dimentichiamo che, come ulteriore riparo dalle intemperie, il Re poteva disporre anche della torre fondaco medievale sita proprio dirimpetto all’Argimusco. Lo stesso termine catalano da cui deriva il toponimo Malabotta, secondo noi, indicava il clima spesso ventoso e non sempre clemente dei luoghi. 
“Malabotta”, secondo noi, è un nome derivante dal catalano Bot, uno dei Comuni della Comarca (contea) della “Terra Alta” nella provincia di Taragona in Catalogna. Il nome ricorda l’altezza del sito grazie all’appartenenza alla Terra Alta catalana, mentre l’aggettivo stava ad indicare la temperatura spesso poco mite dei luoghi, che d’altronde indusse i Catalani ad abbandonare il fortilizio del Castellaccio ivi sito. Tutt’oggi il sito è spazzato da venti impetuosi, con temperature invernali spesso decisamente continentali.
Come ogni re medievale anche Federico adorava la caccia. Dal suo predecessore Federico II di Svevia18 cui deliberatamente, peraltro, si richiamava, e non solo per il suo acceso ghibellinismo19, assunse il numero III nel titolo reale, ovvero di terzo del Regno di Sicilia dopo lo svevo20. Tale nome e il numerale che doveva essere II (in quanto secondo Federico a regnare in Sicilia), è noto, ha causato in non piccola parte la sua sfortuna storica poiché ha sempre determinato la confusione del re aragonese con il più famoso Federico II di Svevia, anche nello stesso paese di Montalbano. Bene, proprio Federico II di Svevia era molto conosciuto per l’arte di cacciare con il falcone.
E come visto, abbiamo già dato la nostra prova che Federico III d’Aragona praticava, proprio negli anni della presenza di Arnau de Vilanova a Montalbano, quella pratica venatoria. Ricordiamo che il famoso capitan di ventura trecentesco Ramon Muntaner fece visita, oltre che, come già visto, nel 1309, anche nel 1312 a Federico in Montalbano. In quest’ultimo caso al fine di regalargli due falconi21. Sentiamolo dalla sua voce: “…E axi partent de Maho fuy en Sicilia, e pres terra a Trapena, e a Trapena yo pose ma muller, e ab la galea anemen a Masina e trobe, quel senyor rey era a Montalba en un lloch que ell esta volenters destiu, e aço era en iuliol; e yo ane lla e done los dos falcons al senyor rey, quel senyor infant en Ferrando li trametia…”.  
Dunque, il bosco di Malabotta al cui interno si trova l’Argimusco è, secondo noi, un ulteriore prova della demanialità del sito dell’Argimustus, in quanto era riserva di caccia reale per la caccia con falcone. Per questo fu rinominato, in parole catalane, per come oggi ancora suona.
PAUL DEVINS & ALESSANDRO MUSCO

CONSIDERAZIONI FINALI
Dicevamo che il nostro viaggio è ora veramente giunto al termine. 
Abbiamo scoperto il senso e la funzione medico-alchemica dell’Argimusco, attivata per il tramite di un vero e proprio “Specchio delle costellazioni sulla terra”, per “come in cielo così in terra”. Costellazioni riprodotte secondo il canone arabo medievale, per come documentato nei nostri studi.
Abbiamo spiegato il senso dei megaliti/statue dell’ingresso, non stereotipi sessuali ma simboli tipici dell’ambiente alchemico cristiano medievale.
Abbiamo ancora rivelato con quali tecniche di diagnosi e di terapia medica, basate sull’osservazione della luna e delle stelle, l’ideatore utilizzava il sito tramite alcune tacche incise sui megaliti, il sestante arabo di pietra, la vasca per le sanguisughe e, abbiamo detto, a mezzo della sfera di Pitagora e dell’astrolabio. 
Abbiamo detto del simbolo templare presente sul sito di Argimusco come di due chiese a Montalbano di chiara impronta architettonica romanico-catalana, con ogni probabilità dedicate ai Beghini. Quel progettista simpatizzava, così come per i templari anche per quei Beghini da lui fatti accogliere alla corte aragonese di Montalbano. 
Abbiamo trattato della passione per le stelle presente nella corona di Aragona e della passione alchemica e stellare della grande e coraggiosa Regina francescana Eleonora d’Angiò, rivelando come, con una tassa imposta sulla sua Camera Reginale siracusana, Ella segretamente finanziò la realizzazione dello “Specchio delle stelle”. Quella stessa Regina che, ritiratasi a vivere in provincia di Catania, viene ancora ricordata nei luoghi come “Stella Aragona”, a causa della sua passione per le stelle.
Abbiamo parlato dello straordinario mondo culturale dell’eccezionale personaggio storico che concepì e guidò il grandioso progetto dell’unico specchio delle stelle esistente al mondo: Arnaldo da Villanova. Egli scelse di vivere a Montalbano i suoi ultimi giorni di vita ove fino a poco tempo fa era ancora ricordato, oltre che per un iscrizione nella chiesetta di S.Caterina, nella tricora che ospitò la sua tomba circondata da affreschi con citazioni in arabo e in ebraico del Vangelo. 
Oggi quelle iscrizioni e quegli affreschi sono pressochè distrutti causa l’incuria degli uomini (e non vogliamo parlare della malafede, quella stessa che ha fatto vandalicamente rimuovere i simboli ghibellini dal castello di uno dei più grandi Re ghibellini della storia).   
Sul sito, chiamato ancora oggi Argimusco, sono state di recente impiantate orride pale eoliche al fine della devastazione del paesaggio (e guadagni di multinazionali dell’energia).
Eppure, quel sito già solo dal nome (“Argimusco”, abbiamo rivelato, vuol dire “muschio/felce luminosa”) dimostra una frequentazione, per come abbiamo documentalmente dimostrato, legata a precise finalità alchemiche, per la produzione della pietra filosofale, quell’oro filosofale che garantiva l’immortalità agli alchimisti.
Parliamo del più grande sogno coltivato dall’umanità fin dai tempi di Gilgamesh o di Alessandro Magno: quello della “immortalità“.  
In un unico piccolo paesino della Sicilia abbiamo trovato una serie di “assets” di assoluto primario livello, un gigantesco Specchio delle Stelle in pietra, più uniche che rare chiese beghine/catare, rarissimi simboli alchemici (degni di sconvolgere persino un Fulcanelli) e prove di pratiche tese alla conquista del grande sogno dell’immortalità.
Finito il nostro viaggio, consegniamo queste nostre scoperte all’Italia e agli studiosi nonché alle genti di Sicilia e di Montalbano Elicona, in particolare, perché non consentano più quell’incuria e quei vandalismi, a protezione di un unicum mondiale, patrimonio dell’umanità.  

PAUL DEVINS & ALESSANDRO MUSCO



 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Note

  1. dal greco “argimoschion” “altopiano delle grandi propaggini”, vedi Pantano Gaetano Maurizio, 1994 – Megaliti di Sicilia – Edizioni Fotocolor.
  2. Leggiamo la definizione di “musco” sul Sabatini Coletti: “ogni piantina diffusa in luoghi umidi o sul lato dei tronchi esposto a nord, con radici e fusticini ridotti e foglioline che crescono talmente vicine da formare un tappeto di colore verde cupo; il tappeto erboso stesso; E’ un termine rintracciabile nel sec. XIV” (il Sabatini Coletti Dizionario della Lingua Italiana su internet).
  3. Leggiamo la definizione di “musco” sul Sabatini Coletti: “ogni piantina diffusa in luoghi umidi o sul lato dei tronchi esposto a nord, con radici e fusticini ridotti e foglioline che crescono talmente vicine da formare un tappeto di colore verde cupo; il tappeto erboso stesso; E’ un termine rintracciabile nel sec. XIV” (il Sabatini Coletti Dizionario della Lingua Italiana su internet).
  4. Dizionario tecnico-etimologico-filologico, Volume 1 Di Marco Aurelio Marchi – Pirola 1828
  5. Secondo la nomenlcatura binomia erano “Lycopodium bryopteris Linnaeus” – The Linnaean Plant Name Typification Project – The Trustees of the Natural History Museum, London – http://www.nhm.ac.uk (internet)
  6. “Post haec ex parte illa jussit iter assumi, et dum pervenissent ad locum, qui dicitur Argimustus, jam Melatium, sicut in mare protenditur, insulae Vulcani, Lipariae et Strongylis ardentes conspiciuntur ex altis. Jam montium Phariae monstrantur confinia; satis visa placent, et loca commendnas delectabilia circumspectat; sedes Helenes Tindareae, ubi Virginis hodie sacra domus excolitur, Pactas et quae ante oculos surgunt Castra commendat; et descendens apud Furnarum, ibi residens noctem fecit” – Bartolomeo di Neocastro, ed. G. Paladino, cap. C, pag. 38. Come poterono passare inosservate tali gigantesche statue di pietra ad un re appena arrivato dalla Spagna (1282) per la guerra del Vespro? questa è qualcosa che gli assertori dell’origine preistorica non sanno e non potranno mai spiegare. 
  7. cfr. F. M. Santinelli, Sonetti alchemici e altri scritti inediti, op. cit., pp. 77-79.
  8. Vedi il termine “Argo” su Wikipedia
  9. “…La chimica moderna ne è invece una deformazione, nel senso più rigoroso della parola, alla quale dette luogo, forse a partire dal Medioevo, l’incomprensione di certe persone che, incapaci di penetrare il senso vero dei simboli, presero tutto alla lettera, e credendo che in tutto ciò non si trattasse che di operazioni puramente materiali si dettero ad un più o meno disordinato sperimentare”. Anche queste persone, prese ormai dall’ossessione della fabbrica dell’oro, fecerro qua e là, per caso, delle scoperte e proprio esse sono gli autentici precursori della chimica moderna. Per cui rivela il Guenon non è una evoluzione o un progresso che dall’ermetismo e dell’alchimia iniziatica si giunge alla chimica, ma proprio all’opposto con una degenerescenza…”, vedi “La Tradizione Ermetica” di Julius Evola, Edizioni Mediterranee, 1996, pag 187/88.
  10. Col titolo di Turba Philosophorum (Turba dei Filosofi) ci sono pervenute due opere distinte: le cosiddette Turba latina e la Turba gallica. L’argomento dei testi è l’alchimia; i testi si fanno risalire al tardo medioevo, da un originale arabo.La prima è un’opera latina che si fa abitualmente risalire al XIII secolo, evidente traduzione da un originale arabo. Si tratta di una serie di discorsi, attribuiti ad un certo numero di filosofi disputanti in cui talvolta non si fatica a riconoscere il nome di filosofi della tradizione greca, nella quale si espongono i principi dell’alchimia facendo ricorso ampio alla tradizione cosmologica della filosofia greca. Lo storico della scienza ed orientalista Julius Ruska (1867-1949), che per primo identificò l’origine araba dello scritto, lo collocò dapprima in un ampio arco temporale tra il IX e l’XI secolo. Henry Ernest Stapleton (1878-1962) notò tuttavia che alcuni passi della Turba erano presenti nell’opera di un alchimista arabo del X secolo, Ibn Umail. Solo in seguito, con gli approfondimenti dell’orientalista Martin Plessner (1900-1973), ci si rese conto che il testo della Turba rivelava una coerenza ed unità compositiva, per cui ogni opera che conteneva citazioni e confronti con essa era da considerarsi posteriore. Poiché Ibn Umauil era morto nel 960, si poteva ragionevolmente collocare la composizione della Turba intorno al 900. Plessner ipotizza che essa possa essere la forma in cui ci è pervenuto un Libro delle dispute e delle riunioni dei Filosofi dell’alchimista Akhnim (Panopoli) Uthmàn Ibn Suwaid, attivo proprio intorno al ‘900.
  11. Athanasius Kircher E L’alchimia, Di Anna Maria Partini, Edizioni Mediterranee, 2004, pag. 136 
  12. I “Figli d’Ermete” dichiaravano che (…) solo la loro “Arte” supererà sino ad una perfezione nel Colloquio di Eudosso e di Pirofilo sul Trionfo Ermetico (B.P.C., t. III, p. 243): “Soltanto il Filosofo è capace di portare la Natura da una imperfezione indeterminata ad una superperfezione…Il Saggio deve cominciare con una cosa imperfetta, che essendo in via di perfezione, si trova nella disposizione naturale per essere portata a superperfezione col soccorso di un’arte tutta divina, la quale può superare il termine limitato della natura” (citati da Evola in La dottrina della palingenesi nell’ermetismo medievale (marzo 1930).  Bilychnis 31 (3): 173-190. Ora in Julius Evola, Claudio Mutti (a cura di), I saggi di Bilychnis, 2a ed., Padova, Edizioni di Ar, 1987, pp.96-117. E più esplicitamente, ed uniformemente, affermano che il loro “Fanciullo”, “creatura di quest’Arte Sacra e Regale” — cioè il Rinato — è più nobile, più possente, più grande, dei suoi cosmici genitori, il Cielo e la Terra, il maschio Sole e la femmina Luna (simboli tradizionali e arcaici della dualità cosmica della forza attiva radiante e della Forza demiurgica operante sotto l’impulso della prima, akineton kinoùn e fysis in Aristotile, ous e ousìa in Plotino, purusha e prakrti nella tradizione indù, yang e yin in quella taoista).
  13. “Un figlio di origine più nobile del Padre e della Madre che gli danno l’essere”. Pernety, Dict, mytho-herm., cit., p. 136: “Questo Fanciullo, secondo essi, è più nobile e più perfetto di suo padre e sua madre, benchè sia figlio del Sole e della Luna e la Terra sia stata la sua prima nutrice”. D’Espagnet lo chiama “Fanciullo regale dei Filosofi, più importante dei suoi genitori, e il cui scettro e la cui corona saranno comunicati ai suoi fratelli” – altri rettifica in “potenza sovrana su tutti i suoi fratelli”. “Fanciullo ermafrodito nato da vergine, fonte di una razza di Re potentissimi” (Dict., p. 522). Nel De Pharmaco Cattolico (III, 13) v’è l’espressione: “Magnipotens, stringente in mano il regno spirituale e quello mondano”, ecc. (citati da Evola in La dottrina della palingenesi nell’ermetismo medievale (marzo 1930). Bilychnis 31 (3): 173-190. Ora in Julius Evola, Claudio Mutti (a cura di), I saggi di Bilychnis, 2a ed., Padova, Edizioni di Ar, 1987, pp.96-117.
  14. Anche per questo Federico II di Svevia deportò i cittadini di Montalbano (insieme a quelli di Centuripe) ad Augusta: anche i sudditi erano beni regi per l’imperatore tedesco che al di là della successiva mitologia non si dimostrò certo un sovrano illuminato nelle repressioni e deportazioni condotte a danno della Sicilia.
  15. Nel 1282 Pietro III d’Aragona, I di Sicilia, padre di Federico III, dovendo recarsi da Randazzo a Messina, raggiunse il «locum qui dicitur Argimustus», e da qui «descendens apud furnarum, ibi residens noctem fecit». Pietro III d’Aragona, inoltre, guardando il panorama dall’alto dell’Argimusto ammirò la «sedes helene tindaree, ubi virginis hodie sacre domus excolitur», ovvero ammirava Tindari ove già allora insisteva il santuario.
  16. Il bosco è, tuttora, popolato da molte specie di uccelli, tra i quali cincie, fringillidi, merli, l’occhiocotto, il colombaccio, numerosi rapaci stanziali tra cui il falco pellegrino (Falco peregrinus), la poiana, il gheppio e l’allocco. Inoltre, ancora nel bosco vivono la volpe, il più grande mammifero predatore superstite in Sicilia, il coniglio selvatico e l’endemico toporagno siciliano (Crocidura sicula).
  17. In un opuscolo dell’Azienda Regionale Foreste Demaniali, more solito, si confonde Federico II di Svevia con Federico III d’Aragona: si dice, infatti, che nel bosco di Malabotta vi andava a caccia Federico II di Svevia, che, invece, certamente mai passò dai luoghi
  18. È notissimo il testo di Federico II di Svevia “De arte venandi cum avibus”: per paradosso storico il manoscritto è conservato alla Biblioteca Vaticana (codice Pal. Lat. 1071)
  19. Sul tema del ghibellinismo medievale vedi Rivolta contro il Mondo moderno di Julius Evola, Mediterranee, 1969, pag. 331 e ss
  20. Ancora sul ghibellinismo di Federico III è interessante notare che forse il più virulento attacco alla Corona Aragonese venne proprio da un notissimo alchimista, Jean de Roquetaillade o Giovanni da Rupescissa. Egli francescano proveniente dalla terra di confine francese dell’Aquitania e acceso anticatalano scrisse nel 1349 un libro, il Liber Secretorum Eventum, in cui descrisse le sue esperienze visionarie avute in prigione allorchè incarcerato, tra mille supplizi per anni, dall’Inquisizione. Nel libro si fa il nome dell’Anticristo basandosi su un ragionamento matematico basato anche sul numero tre. L’Anticristo sarebbe stato l’infante Ludovico II, nipote di Federico III e figlio di Pietro II. In un anedotto appreso da un valoroso prete che sarebbe stato presente in Sicilia al tempo dei fatti Rupescissa apprese che il suggerimento di chiamare Ludovico il figlio, al fine di evitare che questi morisse come gli altri figli, venne da una strega. Rupescissa aggiunge che sommando il valore numerico delle lettere contenute nel nome di Ludovicus risulterebbe il numero 666, il numero della Bestia. L’Anticristo sarebbe, secondo l’achimista aquitano, provenuto dal seme dell’Imperatore svevo Federico II e Ludovico sarebbe stato tale poichè terzo nipote di Federico II: “…de semine Frederici imperatoris depositi et Petri regis Aragonum orietur proximus Antichristus et quod Ludovicus puer rex Trinacrie qui tenet insulam Sicilie ipse est futurus totius seculi generalis monarcha sub quo lugebit Ecclesia sacrosancta Romana..” (citato in  A Kingdom of Stargazers: Astrology and Authority in the late Medieval Crown of Aragon di Michael E. Ryan 2011 pag. 47 e ancora sull’aneddoto pag 73/74).
  21. “…E axi partim dells ab llur gracia, e lo senyor infant en Ferrando lliuram dos falcons montarins gruees qui eren estats del senyor rey son pare, que trames per mi al senyor rey de Sicilia. E anemen a Menorca, e tantost com fuy a Maho ja hi hach missatge del senyor rey de Mallorques, que de part sua, si mi giraua, me fos donat gran refrescament: e si hanch ho mana, be ho compliren sos offlcials. E axi partent de Maho fuy en Sicilia, e pres terra a Trapena, e a Trapena yo pose ma muller, e ab la galea anemen a Masina e trobe, quel senyor rey era a Montalba en un lloch que ell esta volenters destiu, e aço era en iuliol; e yo ane lla e done los dos falcons al senyor rey, quel senyor infant en Ferrando li trametia, e li compte les noues que yo sabia dels senyors de ço de ponent. E puys pris comiat dell, e la sua marce donam del seu em feu molta donor. E ab la sua gracia anemen ab la galea a Trapena, e ab dos barques armades que yo hagui comprades a Masina, e lleue ma muller e anemen a Gerba hon fo feyta gran festa a mi e a ma muller. E tantost donaren de joyes a mi e a ma muller dos mil besants; e aquells dels Querquens axi mateix de llur poder me trameteren llur present. E axi ab la gracia de Deus estiguem en bona pau alegres e pagats en lo castell de Gerba tots aquells tres anys quel senyor rey mauia dats. Mas apres comptar vos he, en qual affany e trebayll torna la illa de Sicilia, e tots aquells qui del senyor rey eren….”, Cap. CCLV. Crònica de Ramon Muntaner – Versione italiana di Filippo Moïsè. Firenze 1844.
  22. Sul Lycopodum vedi in “Materia medica chimico-farmaceutica”, Volume 1 Di Giovanni Pozzi Sonzogno 1816 la seguente definizione: ”Lycopodium clavatum (Licopodio, Musco terrestre)” e ancora vedi la “Dissertatio Medica Curiosa, De Musco Terrestri Clavato” di Georg Wolfgang Wedel, Meno Nikolaus Krebsius, 1702

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